Comunità Piergiorgio ONLUS

I disabili per i disabili



Il mondo della disabilità tra luci ed ombre. Ne parla su "Oltre" il giornalista Gian Antonio Stella, già autore de "La Casta"

L’inviato di punta del “Corriere della Sera” racconta sul periodico della Comunità Piergiorgio “La bambina, il pugile, il canguro”.

Il nonno pugilista prese tra le mani enormi la bambina e ciondolò fino alla finestra per guardarla alla luce della luna che si stagliava immensa dietro un olmo. Scostò con un dito la copertina che l’avvolgeva per vedere meglio il viso. “A me”, disse, “sembra la più bella di tutte”. Valentina si girò dall’altra parte e riprese a piangere, affondando la faccia nel cuscino. La madre, seduta sulla sponda del letto, le posò una mano sulla spalla, voltandosi verso il marito: “Piantala, Primo”.

La copertina del libro "La bambina, il pugile, il canguro" di Gian Antonio Stella

Si adagiano sulla pagina con il garbo e la delicatezza di tante minute ballerine su un impegnativo palco teatrale, le parole che, sin dall’inizio, delineano con chiarezza i contorni di un amore bellissimo, tragico eppure sereno, ove gioia e dolore si alternano in un continuum che ha davvero qualcosa di magico e di speciale.
Gian Antonio Stella, inviato di punta del “Corriere della Sera”, già autore di uno dei casi editoriali più clamorosi degli ultimi anni, “La Casta”, questa volta cambia radicalmente pagina per affrontare ancora il delicato tema dell’handicap nel libro “La bambina, il pugile, il canguro” edito dalla Rizzoli; e lo fa senza retorica né pietismo, raccogliendo invece attraverso toni pacati ma fermi la storia di nonno Primo, di sua moglie Nora e del loro sconfinato amore per quella piccina nata nel giardino dei bambini incompleti, affetta dalla sindrome di Down. Decidono di chiamarla Letizia, esattamente come l’aria nuova e inebriante che avverti solo in certe giornate fresche di primavera, quando si schiudono i tulipani. Ma è una gioia che la madre della bimba non riesce davvero a cogliere e che piuttosto si concretizza da subito, per lei, in un atroce e insostenibile dolore che la porterà a cercare presto la morte tra le onde del mare Adriatico. Poche le pennellate sul padre della bimba, Nevio, descritto come un uomo alcolizzato e irresponsabile che non impiegherà nemmeno un secondo per decidere di sparire totalmente dall’esistenza di Letizia, nel frattempo affidata alle amorevoli cure dei nonni; personaggi davvero straordinari nella loro capacità di affrontare all’improvviso, con e per la bambina, un mondo fatto di inespugnabili luoghi comuni, meschinità gratuite e inossidabili pregiudizi che nemmeno la Chiesa risparmia.

Proprio quest’ultimo, dott. Stella, è un punto importante che a più riprese emerge nel libro con estrema forza lasciando il lettore quasi senza parole. Tra i vari momenti forti a riguardo, ripenso per esempio al dialogo conflittuale che prende corpo nel giorno del battesimo della piccola tra nonna Nora e il parroco, accusato poi da quest’ultima di avere un cuore di porfido… Desidero premettere che io per primo mi inchino dinnanzi a tantissimi sacerdoti, suore e volontari del mondo cattolico che svolgono quotidianamente un lavoro eccezionale per la società riempiendo spesso quei desolanti buchi trascurati dalla macchina pubblica; tuttavia devo però anche ricordare con obiettività che la chiesa, storicamente, ha avuto un approccio davvero molto brutto nei confronti di queste tematiche e io stesso, a dire il vero, non ricordo nemmeno di un solo cardinale disabile nella storia.

Mi tolga un curiosità….Come mai dopo un libro shock come “la casta”, che tra l’altro ha venduto oltre un milione di copie, lei ha deciso di voltare totalmente pagina parlando di un tema così diverso come la disabilità?
Innanzitutto, dopo aver scritto “La casta”, avevo un certo bisogno di respirare e di riprendere fiato; in secondo luogo ho scelto di trattare ancora un argomento di cui in realtà mi occupo già da tanti anni e relativamente al quale ho prodotto numerosi articoli. Il grosso problema del ponte veneziano di Calatrava per esempio, progettato senza tenere minimamente conto dei criteri di accessibilità allo stesso da parte delle persone disabili, l’ho tirato fuori proprio io per primo, sollevando poi una questione a livello nazionale.

Nel libro nonno Giusto, ex pugile e ribattezzato “Primo”, esattamente come il grande Carnera, ama raccontare alla sua adorata Letizia, per farla addormentare, le storie sconosciute di pugili “minori” che hanno passato la vita a combattere sotto riflettori spenti. Perché questa scelta?
Quello del pugilato è un mondo decisamente straordinario, fatto di storie sofferte e meravigliose che sanno di sangue, di fatica e di sudore, dove la vittoria e la sconfitta hanno un senso forte che non può lasciare indifferenti. Non mi vengono in mente altri sport che siano dotati della stessa potenza che caratterizza proprio il pugilato e che trasudino così tanta fatica e sudore. Il messaggio fondamentale del libro, che ho poi anche voluto riportare in copertina, è rappresentato dalle parole che il nonno dice alla nipotina: “Non importa perdere, piccola. Si può perdere anche tutta la vita. Capita. Importa come si perde. Come”. E questa è proprio anche la filosofia di tanti pugili cosiddetti “minori”, che non hanno mai avuto la possibilità nemmeno di sognare di diventare campioni del mondo ma che per la passione incondizionata e gratuita verso questo sport, che sapevano perfettamente non li avrebbe portati a nulla, hanno comunque accettato di prendere un sacco di botte.

Nonno Primo è una figura straordinaria. Grande d’aspetto, dotato di un carattere fuori dal comune che lo rende capace di proteggere la sua nipotina e di “incassare” da buon pugile, tra l’altro profugo istriano, la fiumana di problemi con cui ancora oggi il “diverso” deve fare i conti. Per tratteggiarne i contorni si è ispirato a qualcuno?
Mi sono effettivamente rifatto ad una storia vera che poi però ho ambientato in un contesto totalmente diverso e modificato. Per la descrizione di nonno Primo mi sono quindi ispirato alla storia di un signore che io conosco davvero e al quale voglio un grandissimo bene. Un uomo che ha dovuto realmente crescere la propria nipotina down affrontando allo stesso tempo anche il suicidio della figlia. Si tratta di una persona che, proprio come Primo, stravede per la sua piccina e che ha accettato di affrontare con serenità situazioni drammatiche che alle persone “normali” fanno generalmente tremare i polsi. Credo che la storia che ho raccontato possa davvero insegnare che tutto, nella vita, dipende solo da come si accolgono il dolore, la sofferenza e l’handicap.

La bambina, nata con un solo cromosoma in più, come si legge più volte nel corso del libro, viene descritta sempre come una creatura straordinariamente felice, pur nelle sue debolezze e nella sua fragilità…
Nella realtà Letizia è esattamente cosi; una bimba molto allegra, vivace, tanto affettuosa che però, purtroppo, ha il cervellino di un uccellino e non ha mai neppure imparato che i denti servono per masticare. E’ una piccina che ha avuto una sola grande fortuna nella vita, i suoi due meravigliosi nonni, ma che porta comunque addosso un fardello estremamente pesante. E’ Primo a ripetere spesso: “Mi spiace per lei. Per noi è una grandissima gioia sentire tutto il grosso carico di affetto che Letizia ci rovescia addosso ma questa creatura è stata tanto sfortunata”.

La città di Trieste, l’Istria e il dramma dell’esodo fanno da discreto eppure stentoreo sfondo alla storia narrata. Come mai questa scelta?
Quello dell’esodo è un dramma che fortunatamente non ho vissuto anche se conosco molte persone che invece ne sono state protagoniste involontarie. Il mio desiderio comunque era solo quello di ambientare il racconto in un contesto fisico che annullasse totalmente la possibilità di creare dei collegamenti con le persone reali alle quali mi sono ispirato per tratteggiare i contorni de “La bambina, il pugile, il canguro”.


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